UFO, Spazio e vita, W56, Ummiti, la vita nello spazio c'é e loro sono tra noi da sempre.

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MAIEUTICA

Anche se non ho sostanzialmente fatto parte della saga, non posso passare sotto silenzio il fatto che i W56 ci hanno fornito un'infinità di informazioni, su tutti i campi dello scibile, in particolare nella fisica e nella tecnologia (parlare di ingegneria sarebbe da un lato riduttivo, dall'altro fuorviante).
Per contro, ritengo assai più importanti le informazioni che, a livello di etichetta, potremmo definire "morali". Potrà sembrare strano che un ingegnere sia così sensibile a cose ortogonali a tutto ciò, però anni di pratica yoga (sia a livello fisico che filosofico) mi avevano già da ragazzo lasciato intuire che c'è tutto un mondo da esplorare in questa direzione.
Per quale strampalato motivo tutti coloro che in un modo o nell'altro sono venuti in contatto con questa storia hanno spontaneamente pensato ad "amicizia", da cui il nome? Perché nella morale di questa gente l'amicizia è la molla che dirige i sentimenti. Dicevano: "Io sono tutti, e tutti sono me", un concetto solo parzialmente tramandato dai racconti evangelici del Cristo, spesso corrotti in tante occasioni per fini non molto nobili. Ci si rende conto di che cosa significhi questa frasetta? Quante profonde implicazioni essa svela'? Ci si è avvicinato Jung, con la teoria dell'inconscio collettivo, peraltro limitativa rispetto alla realtà; ci si è avvicinato Vivekananda, nei suoi commenti al Mahabharata, ma anche lui ha avuto una visione parziale. La frasetta di cui sopra svela a noi, che lo conosciamo nel nostro intimo, ma siamo volontariamente ciechi al proposito, un concetto sconvolgente: tutti gli esseri viventi, dal microbo al luminare, sono la medesima cosa, in quanto sfaccettature variegate di una realtà unica; che è Dio. Anzi, la frase precedente è apparentemente anch'essa limitativa: anche le cosiddette entità inanimate sono in realtà partecipi di questa unica entità (chi aveva insegnato queste cose agli anonimi estensori della filosofia yoga?). Quindi, non ha senso che io mi ponga il dualismo fra il "me" ed il "fuori di me", fra il "me" e gli "altri". Amici miei (è venuto spontaneo!) siamo tutti la stessa cosa, io che discetto di analisi frattale, il pazzo terrorista che si fa saltare in aria fra la gente, lo stupratore di bambini e Santa Teresa di Calcutta. Siamo tutti esattamente la stessa cosa, che i W56 chiamavano Uredda (in realtà questo nome si riferiva ad una entità in qualche modo parallela alla cosa).
Il cosiddetto "individualismo" (cfr. Kant, Descartes, e così via) deriva da un errore di fondo: noi di solito crediamo di essere ciò che pensiamo ("Cogito, ergo sum"), riteniamo di coincidere con la nostra mente senziente. Ciò è profondamente errato: la mente è uno strumento, non la nostra essenza, che, ripeto, è Dio, come è sinteticamente enunciato nella frase sanscrita "Tat tvam asi". Però, se cadiamo nell'errore di identificarci con la nostra mente, o ancora peggio con i nostri sensi, allora si genera la proteiforme varietà di condotte, dallo stupratore al terrorista ed alla benefattrice dell'umanità.
La filosofia yoga (ma anche i Vangeli, a leggere bene fra le righe) condanna come viltà il ritirarsi dal mondo (si legga al proposito quel monumento di scienza morale che è il Bhagavad Gita), e difatti i frati, così tanto amati da Bruno, non restano chiusi in una torre d'avorio, ma nel mentre tentano di superare l'individualismo suggerito dalla mente, vivono fra i loro simili, cercando, finché possono, di dare una mano. Frate Francesco torturava il suo corpo, lo sottoponeva alle peggiori ingiurie, proprio al fine di tentare di limitare il nefasto influsso della mente.
I W56 avevano assorbito, da eoni, questo concetto, e difatti vivevano in perfetta sintonia con il loro corpo: indulgevano ai piaceri materiali della vita, senza però farsene influenzare (siamo ancora in pieno Raja Yoga); usavano il loro corpo e la loro mente come uno strumento, quindi da salvaguardare ed accudire, ma mai da vedere come la quintessenza della loro entità, dell'entità umana, e quindi divina. Non so se Frate Francesco, ai suoi tempi, avesse avuto un incontro con gente del
genere, ma di certo ne ha interpretato perfettamente la moralità e, guarda caso, Bruno è stato da sempre un fanatico ammiratore del Poverello. Paradossalmente, se dovessi suggerire un testo sulla morale dei W56, una ottima approsimazione potrebbe essere trovata proprio negli scritti di San Francesco, magari nell'opera omnia sponsorizzata proprio da Bruno (un altro tentativo di propagare certi punti di vista).
D'altro canto, il concetto è fin troppo facilmente dimostrabile: se noi fossimo solo il nostro corpo e la nostra mente, che cosa accade di noi quando, ad esempio, ci ubriachiamo, e sia il corpo che la mente danno momentaneamente forfait? Siamo forse noi stessi, momentaneamente, al di fuori del contesto cosmico? Che cosa succede quando un barbiere ci taglia una ciocca di capelli? Per quanto modesta sia, è comunque una perdita di individualità (Cfr. L'asino d'oro di Apuleio di Madaura). In realtà i maghi dell'epoca non avevano del tutto torto, come sostenevano anche i W56, e le precauzioni narrate a questo proposito da parte del barbiere nell'istruttiva opera citata (*) sottolineano questo fatto, ma in questo caso il discorso è decisamente diverso, fa riferimento alla individualità fisica, al khw, non al ka. Come mai, quando il nostro corpo muore, unghie, capelli e barba continuano a crescere per un po' di tempo? È ancora la nostra individualità a pilotare il fenomeno, o che cosa?
Il Male. Un concetto assai pesante. Uno dei W mi aveva detto che non è fondamentalmente malvagia l'azione di uccidere un uomo (entro certi contesti); se la nostra cosiddetta civiltà fosse capace di accettare concetti del genere, per prima cosa dovrebbe buttare a mare leggi e giudici (che difatti non esistono in casa W56 – non si capisce a che cosa potrebbero servire). Per contro il male è un concetto assai immanente dal loro punto di vista, una sfida del singolo contro sé medesimo. "Il male" – dicevano – "è la deviazione dalla natura umana." L'uomo, o qualunque essere vivente, è caratterizzato da ciò che noi ingegneri chiamiamo inviluppo nello spazio delle fasi, in buona sostanza da una certa tipologia di comportamento. L'errore di fondo insito nell'esistenza stessa di una giustizia amministrata da uomini consiste nel fatto che si punisce (cfr. Beccaria) un comportamento definito anomalo a tavolino, senza, così facendo, ottenere alcun risultato positivo, anzi il più delle volte peggiorando la situazione. Il giorno che ci libereremo da questa inutile, ingombrante e controproducente appendice dello Stato avremo fatto un primo, piccolo, passo verso una parvenza di civiltà.
Se qualcuno mi fa un torto, e io me ne risento, comunque io ho colpa, perché applico la meschinità della mia individualità, del tutto apparente, ad un fenomeno insignificante su scala cosmica. Per questo Qualcuno aveva detto "Volgi l'altra guancia." Se conseguisco un risultato atteso, e quindi ho una vittoria, ne devo subito dopo ottenere un'altra, contro me stesso, onde evitare di trarre motivo di orgoglio da quanto accaduto. Il nome che Bruno aveva attribuito agli amici, W, deriva proprio da questo concetto.
Lo Stato. Che cos'è? Un'entità che si dichiara (sia in dittatura che in democrazia) emissione del popolo, che in suo nome emana leggi (cfr. supra), applica balzelli, e vive parassitariamente sulle spalle del cosiddetto popolo sovrano. Se ci pensiamo un attimo, tutto ciò non serve assolutamente a nulla, anzi, se tutti gli stati scomparissero dalla faccia della Terra, assieme a tutti i politicanti, di qualunque indirizzo, i terricoli potrebbero pensare di aver fatto un secondo, piccolo, balzo in avanti. Presso i W56 non c'era la benché minima idea di "stato"; alcuni, selezionati a livello oligarchico, fornivano indicazioni di larga massima, e questo era quanto. Allorché ho chiesto se la selezione fosse fatta, che so, da un calcolatore, onde garantire equità, il mio interlocutore si è messo letteralmente a ridere! "E perché? Forse qualcuno di noi potrebbe avere interesse ad influenzare malignamente la scelta?" I W56 sono realmente anni luce più avanti rispetto a noi.
La scienza. Da buon tecnologo, ovviamente sono un cultore della scienza. Ma la scienza per i W56 è uno strumento, non il fine. Ho imparato di più da alcuni animali che da tanti luminari. I nostri, al solito da un punto di vista vantaggioso, vuoi per l'incomparabile livello tecnologico, vuoi soprattutto per un atteggiamento coerente con sé medesimi, non consideravano la scienza una cosa particolarmente importante; dichiaravano di saperne quanto basta, e che continuavano a condurre ricerche, ma quasi per hobby, senza nessuna finalità specifica.
Dio, Allah, YHWE, o quant'altro. Anche in questo i W56 ricalcavano la filosofia yoga, il classico Tat Tvam Asi: "tu sei il tuo dio." L'uomo è dio, e la divinità coincide con l'insieme di tutto ciò che è vivente e di ciò che non lo è. Non è banale panteismo, attenzione. Non è che c'è un dio nascosto dentro il sasso fuori della porta. È che nulla di ciò che esiste (anche a livelli a noi ancora sconosciuti) è in alcun modo estraneo alla natura di Dio. Noi, io, tu lettore, lo stupratore di bimbi, Frate Francesco, il pazzo attentatore, Madre Teresa, siamo tutti Dio. Se mi si consente (non sono un teologo!) un tecnicismo, Dio è l'inviluppo delle specificità di qualunque entità. Le religioni terrestri si sono avvicinate in misura diversa e variamente variegata a questo concetto, ma il miraggio del potere temporale le ha sempre piegate verso atteggiamenti banali. Pur rispettando qualunque credo terricolo, i W56 dichiaravano che, a loro parere, non c'è bisogno di rituali, non c'è bisogno di adorazioni, non c'è bisogno di chiedere grazie: Dio è in noi, noi siamo Dio. Una eventuale grazia dobbiamo chiederla a noi stessi.
Quando Bruno mi dettava le sue memorie, avevo tentato di spingerlo a parlare di cose del genere, e difatti, fra le righe, si può scorgere qualche larvato accenno, ma si era rifiutato di discutere apertamente della cosa. "La gente" – diceva – "non vuole comprendere certe cose, nemmeno se ci sbattono sopra la faccia." Alcuni di questi concetti sono sviluppati molto bene nel libro del prof. Marhaba citato in bibliografia, ma credo che il testo sia ormai introvabile. Ovviamente io non sono in grado di proporre al lettore una conversazione con Dimpietro (l'ho intravisto una sola volta, e da allora mi sono pentito per non averlo bloccato ed averci diatribato a lungo); né posso, come faceva normalmente Bruno, invitare il lettore ad un giro turistico entro la più vicina base dei W. Credo però che queste brevi righe siano difficilmente non condivisibili, anche se chi le ha redatte è un terricolo, e non un alieno a bordo del suo disco volante e, sopra tutto, le ha scritte a partire da suoi convincimenti personali, solo più tardi suffragati dai W56. Come è capitato spessissimo nel corso dei colloqui con questa gente, costoro non parlavano ex cathedra, ma anzi, in una sorta di maieutica, tiravano fuori da noi concetti che tenevamo sepolti sotto una spessa coltre di luoghi comuni ed atteggiamenti di comodo. Certamente questo è stato l'apporto più significativo di Amicizia, anche se, ancora una volta, ciò che è mancato alla fine è stato proprio il lato terricolo.
Quando ho discusso con Hans di Relatività generalizzata, di cui sono un affezionato cultore, mi è stato gentilmente fatto notare che proprio l'ideatore della Relatività aveva postulato concetti assoluti: lo spazio ed il tempo, e tutti i vari campi coinvolti nella bisogna (cfr., analogamente, il colloquio con la fisica siberiana). Perché un campo elettrico deve essere tale, e mantenere staticamente la sua individualità? Al solito, maieutica; a suo tempo, prima dei W56, mi ero incamminato verso una riscrittura della Generalizzata proprio in questa direzione. Il lettore incredulo potrà sostenere che mi sono inventato i marzianotti a supporto delle mie idee. Se così fosse, che cosa cambierebbe?
Proviamo invece a prendere carta e matita, ed a riscrivere la Generalizzata in questi termini: spazio, tempo, campi assortiti, sono tutti entità complesse (nel senso matematico del termine) e descrivibili utilizzando l'algebra dei quaternioni. Chi mastichi di Analisi complessa avrà, forse, a questo punto una lampadina che gli si accende nel cervello: il numero 4... Se il tutto si applica alla Analisi tensoriale, si ha una infinità (colloquiale) di situazioni diverse. Prego il lettore non esperto di credere che questo concetto (che derivi da me o dai marzianotti è inessenziale) è l'unico possibile punto di svolta nel panorama della fisica contemporanea, impantanata com'è in strane diatribe attorno a sub particelle che di fatto non esistono, in quanto sono generate nel corso degli esperimenti.
Tanti concetti che la fisica ci dà come assoluti e basilari in realtà sono solo delle pure apparenze. Tempo addietro, parlando con un amico, gli ho dimostrato come lo zero assoluto, ed il secondo principio della termodinamica, siano estremamente discutibili (molti anni prima avevo tenuto una conferenza alla facoltà di Fisica di Bologna, sostenendo i medesimi concetti). Non si deve dare nulla per scontato, meno che mai
per assioma. Uno dei messaggi che i W56 hanno estratto da noi è proprio il decidere di voler mettere in discussione qualunque assioma (in modo intelligente, s'intende, non alla guisa dei contestatori di maniera!). C'è un simpatico teorema di geometria piana (cfr. Appendice) che dimostra che tutti i triangoli sono equilateri, e che viene normalmente presentato come un paradosso. Il teorema è invece sostanzialmente esatto, e si basa sugli Elementi di Euclide. L'errore sta proprio in Euclide, il quale, nella sua opera, non aveva mai formalizzato i concetti di interno ed esterno, per cui, in buona sostanza, il teorema di cui sopra è assolutamente corretto. Pure, da secoli, continuiamo a presentare la geometria euclidea come un modello di costruzione logica. È vero che da decenni si è iniziato a discutere sulla assiomaticità di alcuni concetti astratti, ma purtroppo la discussione è ristretta a pochi intimi (matematici) e non si estende ad altri campi dello scibile.
Da anni vado tenendo in giro conferenze nelle quali contesto il fatto che la velocità della luce nel vuoto non sia superabile (e proprio in ambito relativistico), partendo dal fatto che lo stesso Einstein non si era mai azzardato a porre questo limite (si leggano, al proposito, AA vari: Cinquant'anni di Relatività, Sansoni, 1955, pag. 87, Albert Einstein: Il significato della Relatività – Boringhieri, 1959, pag. 28, 87, ecc.). È certamente vero che non riusciamo ad accelerare un elettrone dentro un tubo catodico al di là di qualche frazione della velocità della luce, ma al solito si stanno confondendo cause ed effetti.
La c relativistica è a tutti gli effetti, per quel che ci concerne, la velocità della luce nel vuoto, ma lo stesso Einstein aveva affermato che si trattava di una deduzione "... secondo l'esperienza." Al di là di questa affermazione ragionevole, non credo sia possibile dimostrare questa equivalenza; da ingegnere in TLC con la mania della Relatività, posso dire che (teorema di Shannon) c'è la velocità del più rapido veicolo di informazioni disponibile (quindi per noi la luce). Se domani atterrasse un marziano sul suo disco volante, con in mano una ricetrasmittente che usa "onde", che so, dieci volte più veloci della luce, c cambierebbe immediatamente di valore e, paradossalmente, da quel momento in poi una bomba atomica scoppierebbe con energia cento volte maggiore.

Poi, sempre in ambito relativistico, non è detto che sia impossibile compiere una traiettoria, restando in ogni momento al di sotto di c, ma ottenendo un tempo di percorso globale inferiore alla distanza divisa per c; non è il caso, in queste note, di entrare in considerazioni matematiche, ma penso basti ricordare che si parla di metrica non euclidea. Facendo un esempio stupido (spesso i miei studenti ad Ingegneria ci cascano come pere cotte) qual è la traiettoria più breve fra Roma e New York (praticamente alla stessa latitudine)? La prima, ovvia, e sbagliata, risposta è un moto a latitudine costante, lungo il parallelo comune. Chi sa perché invece gli aerei di linea, che ci tengono al consumo di carburante, ed ai tempi di percorrenza, seguono una traiettoria che va verso nord, sorvola la Francia, sfiora la Groenlandia, e quindi ridiscende lungo le coste del Canada: è banalmente il tratto di cerchio massimo (la "geodetica", in termini relativistici) che unisce Roma a New York su una superficie sferica. Se però fossi in grado di cambiare le carte in tavola, a parità di velocità istantanea, potrei battere qualche record: se potessi aprirmi davanti un ipotetico tunnel rettilineo fra Fiumicino e JFK, un aereo che si muovesse lungo questo tunnel, passando sotto all'Atlantico, accorcerebbe il tragitto in modo sensibile, riducendo quindi i tempi di percorrenza (*). Ripeto, l'esempio è stupido, ma non più di tanto: tornando al nostro spazio a dodici dimensioni (metrica di Riemann) posso sempre – naturalmente in via ipotetica – trovare scorciatoie che mi permettono di ridurre drasticamente la distanza cronotopica fra due eventi, dando agli astanti l'impressione che debba per forza essermi mosso a velocità maggiore della ormai famosa c (il che non è necessariamente vero).
Se poi si riscrivesse la Generalizzata nei termini che ho indicato (tutte le grandezze complesse, algebra dei quaternioni), si scoprirebbe che lo stesso concetto di "velocità" diviene da prendere con le molle: per noi la velocità è la derivata prima dello spazio rispetto al tempo (diciamo tre
(*) Per la cronaca, la distanza lungo una traiettoria a latitudine (circa) costante è di 7194 km, quella lungo la geodetica è di 6865 km, quella lungo un ipotetico tunnel sarebbe di soli 6538 km. Per fare questo calcolo mi sono basato sulle coordinate di Fiumicino (41°49', 12°17') e quelle di JFK (40°37', -73°47').
derivate, viste le tre dimensioni dello spazio convenzionale); nella mia ottica, avrei invece 432 derivate prime da tenere presenti, e quelle classiche sarebbero solo tre fra altre quattrocentoventinove. Mi fermo qui, perché a questo punto si dovrebbe entrare in termini di Analisi matematica, e non è questo lo scopo di questo libro. Spero però di avere suscitato qualche dubbio nel lettore, e magari qualche pungolo a prendere carta e matita e verificare la plausibilità di quanto sono andato raccontando.
Ciò che posso dire di avere appreso (ripeto, entro me medesimo, ma in parte pungolato dai signori) è sostanzialmente che si deve guardare criticamente a qualsiasi fenomeno. Ripeto, lasciandomi spalleggiare dai W56, ma non facendomi particolarmente forte di ciò, è necessario che ci si abitui ad usare la testa, visto che essa è parte del nostro essere senziente, e ci si rifiuti di accettare per oro colato ciò che la nostra presunta scienza e l'altrettanto presunta filosofia ci impongono. Un altro esempio: le Cefeidi. Su queste stelle variabili si è costruita buona parte della nostra "conoscenza" delle distanze di oggetti stellari remoti, assumendo, del tutto gratuitamente, una costanza di certi rapporti. La nostra presunta scienza è piena di assunti infondati del genere, a partire dalla fisica per finire all'astronomia, alla biologia e, incredibile dictu, alla matematica. Ci voleva il buon Mandelbrot (il quale non è un W56, bensì un matematico, con la mente un po' più aperta di quella di tanti suoi colleghi), a dare avvio ad una rivisitazione dell'Analisi indagando proprio quei settori di confine dai quali quasi tutti i matematici (Gauss fra i tanti) si erano tenuti religiosamente lontani.
Ribadisco, per l'ennesima volta, a rischio di divenire tedioso, che questo è il principale insegnamento degli amati W56 a livello di scienza. E invito il lettore, sia che creda (perché dovrebbe, poi?) a quanto scritto sin qui, sia che pensi che noi tre e tanti altri siamo pazzi inguaribili, a fare comunque tesoro di questo ammonimento, derivi esso dai W56, dall'autore di queste note, o magari dallo stretto intimo del lettore. Si creda che quanto appena detto sia un sunto dei discorsi dei W56, o che si tratti di mie farneticazioni, la sostanza non cambia. È comunque maieutica.
 

 

 

(*) Anche il buon Apuleio è stato un precursore e, attraverso un romanzetto apparentemente da quattro soldi, ci ha fornito suggerimenti notevoli: perché il protagonista deve mangiare rose alla fine della vicenda? D'altronde, nel "De magia", Apuleio ci dà una chiara visione della commistione fra politica e strutture religiose, già ai suoi tempi!

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